Il pasticcio sulle pensioni nella legge di Bilancio

Perché il governo ha prima inserito e poi ritirato le nuove norme su riscatto della laurea e finestre di pensionamento
Ansa
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Nella mattinata di venerdì 19 dicembre, il governo ha depositato un nuovo emendamento al disegno di legge di Bilancio per il 2026, ancora all’esame della Commissione Bilancio, con cui ha cancellato le criticate misure sulle pensioni presentate soltanto due giorni prima all’interno di un altro emendamento.

Secondo un retroscena pubblicato da la Repubblica, la decisione di togliere queste norme sarebbe maturata dopo una forte tensione all’interno della maggioranza, con la Lega che avrebbe chiesto al ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti di eliminarle minacciando di non sostenere la manovra.

Le misure più contestate erano due: l’abolizione del riscatto degli anni di laurea ai fini della pensione anticipata e l’allungamento delle cosiddette “finestre” pensionistiche, cioè il periodo di attesa tra la maturazione dei requisiti e l’erogazione effettiva dell’assegno.

Ma perché erano state presentate queste misure? E come mai hanno suscitato così tante critiche, tanto che la stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha detto in Parlamento che andavano cambiate? Facciamo un po’ di chiarezza. 

Il riscatto della laurea

Il 16 dicembre il governo ha presentato una serie di modifiche alla legge di Bilancio per raccogliere circa 3,5 miliardi di euro da destinare alle imprese, intervenendo di nuovo su un testo che era stato presentato in Parlamento quasi due mesi prima e che, di norma, a questo punto dell’iter legislativo dovrebbe essere ormai sostanzialmente definito.

Per trovare queste risorse aggiuntive, il governo aveva messo sul tavolo un intervento sulle pensioni, proponendo di cambiare alcune regole di base, in particolare quelle sul riscatto degli anni di laurea e sul momento in cui si va effettivamente in pensione. Il riscatto della laurea è il meccanismo che consente di versare contributi per gli anni di studio universitario, facendoli valere ai fini pensionistici.

La modifica sarebbe dovuta entrare in vigore dal 1° gennaio 2031. In base alla proposta del governo, da quella data in poi non tutti gli anni di laurea riscattati avrebbero contribuito ad anticipare l’uscita dal lavoro. Una parte di quegli anni, inizialmente pari a sei mesi, non sarebbe stata conteggiata nel calcolo dei contributi necessari per andare in pensione. I contributi versati avrebbero continuato a incidere sull’importo dell’assegno finale, ma non avrebbero più aiutato a raggiungere prima il requisito degli anni di lavoro richiesti, oggi fissato a 42 anni e 10 mesi.

Con il passare del tempo la penalizzazione sarebbe aumentata: la quota di anni riscattati esclusa dal conteggio sarebbe cresciuta gradualmente, fino ad arrivare a 30 mesi dal 2035. In pratica, sarebbe rimasta la possibilità di riscattare la laurea, ma quasi due anni e mezzo di contributi pagati non sarebbero serviti ad andare in pensione prima, rendendo di fatto poco utile gran parte del riscatto di una laurea triennale.

Il problema della retroattività

Il punto più delicato della proposta del governo riguardava la retroattività. Per come era stato scritto il testo iniziale, la nuova regola non avrebbe colpito solo chi avesse deciso di riscattare la laurea in futuro, ma anche chi lo aveva già fatto negli anni passati, contando di andare in pensione prima dopo aver versato somme consistenti.

La norma, infatti, non vietava il riscatto della laurea dal 2031, ma faceva riferimento ai «soggetti che maturano i requisiti per il pensionamento dal 1° gennaio 2031». In termini concreti, si sarebbe quindi applicata soprattutto alle persone nate nei primi anni Settanta, che inizieranno a raggiungere i requisiti pensionistici nel prossimo decennio. Questo significa che la misura non avrebbe inciso su chi è vicino alla pensione oggi, ma su lavoratori che andranno in pensione tra almeno cinque o dieci anni.

Di fronte alle critiche, il governo ha poi fatto marcia indietro sul tema della retroattività, e Meloni ha chiarito che la norma, se fosse rimasta in piedi, non avrebbe riguardato i riscatti già effettuati. 

La questione non è solo politica o di equità, ma anche giuridica: cambiare a posteriori le regole del riscatto avrebbe potuto esporre lo Stato a ricorsi da parte di chi aveva pagato migliaia di euro proprio per ridurre gli anni di lavoro prima della pensione.

Del resto, la giurisprudenza è tradizionalmente molto cauta quando si tratta di diritti pensionistici già maturati. Uno dei motivi per cui è così difficile intervenire sulle pensioni, pure su quelle più generose rispetto ai contributi versati, è il cosiddetto “principio del pro rata”, secondo cui valgono le regole in vigore al momento del pensionamento. È vero che il riscatto della laurea segue logiche in parte diverse, ma dimostrare la piena legittimità di una modifica retroattiva sarebbe stato comunque complesso.

Secondo alcuni esperti sentiti dal Corriere della Sera, la tenuta costituzionale della norma sarebbe stata tutt’altro che scontata. Da un lato, l’ex giudice della Corte costituzionale Giulio Prosperetti ha sottolineato che l’intervento si inseriva in una tendenza ormai consolidata del legislatore a scoraggiare il pensionamento anticipato e che la gradualità prevista dal testo avrebbe potuto metterlo al riparo da censure di incostituzionalità, anche perché non esiste un vero e proprio diritto acquisito alla pensione prima del suo conseguimento. 

Dall’altro lato, il costituzionalista Vittorio Angiolini ha espresso valutazioni più critiche, sottolineando come la norma fosse scritta in modo confuso e presentasse seri problemi di legittimità, soprattutto per il rischio di una retroattività sostanziale che avrebbe colpito chi aveva già riscattato la laurea pagando somme rilevanti. In questo caso, secondo Angiolini, si sarebbe finiti per svuotare di fatto un diritto già maturato, con possibili profili discriminatori tra chi aveva pagato il riscatto e chi no.

Mettendo definitivamente da parte il nodo della retroattività, resterebbe comunque un problema di fondo già visto altre volte. Le correzioni pensate per rendere più sostenibile il sistema pensionistico finirebbero per pesare soprattutto sulle generazioni più giovani. Il sostanziale svuotamento del riscatto della laurea avrebbe infatti consentito allo Stato di risparmiare risorse, in primo luogo perché avrebbe spostato in avanti l’uscita dal lavoro di molti contribuenti. Questo risultato sarebbe stato ottenuto riducendo in modo significativo il valore di contributi già versati, fino a 30 mesi che non sarebbero più stati conteggiati come anni di lavoro, colpendo chi aveva scelto di riscattare la laurea proprio per andare in pensione prima.

Allo stesso tempo, la misura non avrebbe avuto effetti su chi aveva già sfruttato il riscatto in passato, anche in periodi in cui era possibile applicarlo a percorsi oggi esclusi, come alcuni corsi professionalizzanti. La scelta di far scattare le nuove regole solo tra diversi anni avrebbe inoltre rappresentato un evidente vantaggio politico: spostare il problema nel tempo attenua il malcontento e rende più digeribile il cambiamento. C’è una differenza sostanziale tra scoprire di dover lavorare due anni in più quando si è a pochi mesi dalla pensione e saperlo quando si prevede di lavorare ancora per almeno dieci anni.

Le finestre di pensionamento

La seconda misura riguardava le “finestre” di pensionamento, cioè il periodo che intercorre tra la fine dell’attività lavorativa e l’erogazione effettiva della pensione. In teoria queste finestre servono per ragioni tecniche, come verificare la correttezza dei contributi versati e calcolare l’importo dell’assegno. Nella pratica, però, rappresentano un risparmio per lo Stato, che posticipando il pagamento evita di versare alcune mensilità. Allo stesso tempo, questo periodo di attesa può creare difficoltà concrete, soprattutto per chi non ha risparmi sufficienti per affrontare mesi senza stipendio né pensione.

Nell’emendamento del governo era prevista una modifica che avrebbe allungato progressivamente queste finestre a partire dal 2031. Per chi avesse maturato i requisiti entro quella data, la finestra sarebbe rimasta di tre mesi, ma si sarebbe poi estesa anno dopo anno fino a raggiungere i sei mesi nel 2035. In questo caso il vantaggio per le casse pubbliche sarebbe stato evidente, ma a pagarne il prezzo sarebbero stati i nuovi pensionati, costretti ad arrangiarsi o a continuare a lavorare per mezzo anno dopo aver già maturato il diritto alla pensione. Se si considera che l’età pensionabile e gli anni di contributi richiesti sono destinati ad aumentare, l’effetto complessivo sarebbe stato quello di allontanare ulteriormente la pensione per i più giovani, sia perché si dovrà lavorare più a lungo, sia perché l’attesa tra lavoro e pensione diventerebbe più lunga.

Anche su questo punto emerge una contraddizione già vista. Da un lato il governo rivendica di difendere i pensionati e il diritto ad andare in pensione, dall’altro propone interventi che rendono questo traguardo più difficile da raggiungere. Ridurre la spesa pensionistica non è di per sé una scelta sbagliata, visto il peso che questa voce ha sul bilancio pubblico, ma il problema è come lo si fa. Le misure ipotizzate in legge di Bilancio colpivano solo i futuri pensionati, senza intervenire sulle pensioni già in essere di importo molto superiore ai contributi versati, che continuano a rappresentare una parte rilevante della spesa dell’INPS.

Alla fine, le proteste suscitate da queste proposte, anche all’interno della maggioranza, hanno spinto il governo a rinunciare a interventi sulle pensioni per quest’anno. 
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